La parola nomade deriva dal greco nomas, che significa pastore. Tradizionalmente la popolazione mongola ha sempre vissuto una vita nomadica ed ancora oggi i pastori mongoli sono quasi un milione, circa un terzo della popolazione, e accudiscono un patrimonio zootecnico stimato in circa 65 milioni di capi di bestiame, di cui tre milioni sono cavalli; è la concentrazione di animali di allevamento più alta del pianeta.
I pastori nomadi mongoli interagiscono con il ciclo naturale della vita delle greggi e delle mandrie, tanto che in questa parte del mondo non si è mai adottato l’uso di stalle: piuttosto che modificare le abitudini degli animali, l’uomo ha preferito adattarsi alle loro esigenze, seguendoli nelle migrazioni stagionali. Così, per poter seguire i loro spostamenti, i mongoli hanno concepito come particolare abitazione una tenda a base cilindrica, la gher, la cui origine risale alla notte dei tempi. Le gher vengono posizionate in modo da non distare più di una decina di chilometri dal luogo di pastura; quando lo spazio tra mandria e tende è tale da richiedere quasi una giornata a cavallo per andare e tornare dall’accampamento alla mandria, i pastori smontano il campo e si avvicinano.
Il nomadismo mongolo non è un semplice errare o vagabondare per la steppa, ma segue precisi itinerari, definiti dalla presenza di acqua e di buoni pascoli, secondo regole comportamentali vecchie di secoli. In Mongolia non vi sono proprietà o possidenza, ma solo consuetudini che si ripetono nel tempo. Di fatto non esiste la proprietà privata del territorio, tranne in alcune aree, e da millenni equidi, camelidi, bovini ed ovini pascolano allo stato brado, seguiti negli spostamenti dagli allevatori che si attengono a regole non scritte che stabiliscono la precedenza di un gruppo rispetto ad un altro.
Tra i diversi tipi di allevamento quello del cavallo è di gran lunga il preferito ed il più redditizio: di piccola statura (160 cm), corto (145 cm), assai robusto e incredibilmente agile, può percorrere 120 km in un giorno, acclimatandosi agli oltre 35° dell’estate e ai – 40° dell’inverno, nutrendosi dei magri pascoli della steppa, ora desertica, ora ricoperta da una fittissima coltre di neve. Anche nei rapporti sociali l’esteriorizzazione della ricchezza e del benessere è basata sui cavalli: ad esempio, le selle in legno, sempre finemente lavorate e spesso adornate con monili d’argento, rappresentano uno degli oggetti che i mongoli mostrano orgogliosi come segno distintivo di appartenenza ad una certa classe o ceto sociale. Per gli occidentali sono però ben difficili da utilizzare: infatti le borchie che l’adornano hanno la funzione di massaggiare le gambe del cavaliere, ma per chi non è abituato ad usarle sono decisamente scomode. Secondo una leggenda popolare fu il primo imperatore Manciù ad obbligare i mongoli ad inserirle per ridurne la capacità di resistenza in sella e rendere meno facili le razzie a lungo raggio in territorio cinese o le grandi migrazioni delle tribù, ma i tenaci cavalieri mongoli hanno invece sviluppato ben adeguati calli!
Il cavallo nello stemma della Mongolia è rappresentato alato, con una forte simbologia sciamanica: infatti nell’arte divinatoria il cavallo guida il vate, cieco, nel suo viaggio ultraterreno e il suo simbolismo figura in corredi e paramenti religiosi. Nel bastone rituale ligneo, confezionato con cuoio equino e pendagli di crini, si trova, ad esempio, la testa di cavallo scolpita e dipinta in lacca, e il tamburello che viene utilizzato per allontanare il destino infausto e gli spiriti maligni. Il cavallo è anche il logo della compagnia aerea nazionale. Naturalmente l’anno del cavallo, nell’astrologia mongola, è considerato un anno di grandi soddisfazioni.
Storia, leggende e immaginario collettivo convergono nell’identificare la civiltà mongola con il rapporto di più assoluta necessità e simbiosi tra uomo e cavallo. Recita un millenario adagio: “Il mongolo nasce nella gher e muore a cavallo”.
Questa straordinaria simbiosi tra il popolo della steppa ed i cavalli non solo ha storicamente contraddistinto l’espansione militare dei mongoli, ma inalterata continua a reiterarsi nello stile di vita di autentico nomadismo, nella ricchezza delle tradizioni e nell’incredibile fascino delle leggende. Tra queste ultime vi è la storia d’amore che si ascolta con la musica del Morin (cavallo) Khuur (viola), il tradizionale strumento a due corde sul cui manico sono scolpite teste equine. Sulle sue note si narra che la giovane sposa di un valoroso cavaliere, gelosa dell’amore del marito per il suo prode amico cavallo, decise di uccidere l’animale somministrandogli nel fieno una pozione velenosa. Inutili i soccorsi, le lacrime e le amorose parole del cavaliere che per quattro giorni ininterrottamente vegliò il defunto destriero. Il quinto giorno, desiderando tenerlo per sempre vicino a sé, il cavaliere scuoiò l’animale e ne appese ad asciugare al sole il vello biondo, irrorato dal pianto. Alzatosi d’improvviso, il vento iniziò a sfiorare il cuoio e, soffiando aliti di carezze sulla criniera e sulla coda, suonò la più soave delle melodie.
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