A cura di Claudia Picardi
La gigantesca barriera dei monti himalaiani crea a nord ovest dell’India due regioni diversissime, con le aree meridionali caratterizzate da un clima più monsonico e quelle settentrionali più aride con le basi delle vallate poste in generale a quote più elevate (si veda India himalaiana occidentale), una grande diversità ambientale che si riflette in modo spiccato anche nelle etnie, storia e cultura che si incontrano nei diversi territori. Questo resoconto storico illustra gli eventi delle regioni di cultura tibetana dell’India, ovvero dei territori cosiddetti trans-himalaiani, o settentrionali, posti a nord della barriera monsonica formata dalle possenti catene montuose dell’Himachal Pradesh e del Kashmir orientale.
Le prime informazioni storiche attendibili sul Ladakh e le circostanti regioni che vanno dallo Zanskar allo Spiti risalgono al X secolo. Nell’anno 842 l’impero centro-asiatico del Tibet si disgregò a seguito dell’assassinio del re Langdarma ed al crollo della dinastia reale i discendenti di Langdarma, che si consideravano i legittimi rappresentanti del grande impero scomparso, si rifugiarono nelle regioni tibetane occidentali di Ngari, fondando inizialmente tre regni con capitali a Purang, Tsaparang (Gughe) e Rutok, con quest’ultima che si affaccia sul lato orientale del lago ladakho di Pangong. (Per maggiori informazioni vedi Storia e cultura del Tibet). Estesero quindi la loro influenza sullo Spiti, la regione dell’attuale himalaia indiano che confinava con il regno di Gughe, ed a ovest in Ladakh fino al remoto Zanskar.
Tra i discendenti di Langdarma primeggiò il nipote Nyimagon; il Ladakh fu affidato a Pelgigon, uno dei suoi nipoti, che ne divenne il primo re a metà del X secolo. Questo evento sancì il completamento della diffusione del buddismo nella regione, che aveva avuto inizio soprattutto ad occidente nelle vallate vicino al Kashmir, come si evince ad esempio dalla statua rupestre di Mulbeck che per diversi studiosi risale al IV secolo, o dall’eremo di Naropa, uno dei Guru dei lignaggi principali della seconda diffusione del buddismo tibetano, costruito prima del X secolo a Dzongkhul in Zanskar.
Partendo dall’XI secolo furono edificati molti templi e monasteri, beneficiando, anche nei futuri territori dell’himalaia indiano, dell’onda del rinascimento buddista iniziato nell’XI secolo nel Regno di Gughe dal re Yeshe Ö, che riuscì ad invitare a Tsaparang il grande maestro indiano Atisha. L’opera di questo grande luminare dell’India ebbe trai suoi profondi effetti la nascita della scuola tibetana buddista dei Kadampa e quindi della scuola Ghelupa. (Per maggiori informazioni sulla storia del buddismo tibetano vedi Buddismo tibetano) Una delle figure prominenti di questo effervescente periodo fu Rinchen Zangpo, che si recò in India per acquisire insegnamenti e la capacità di tradurre i testi classici; nella sua vasta opera nelle regioni tibetane fondò diversi monasteri anche in Ladakh e nello Spiti.
I monasteri di questo periodo hanno la caratteristica di essere costruiti a fondo valle, non sono ancora edificati in posizioni atte alla difesa a guisa di fortezze, e si riscontra la prevalenza di uno stile indiano nelle statue e negli affreschi. Infatti a quell’epoca non si era ancora cristallizzata la nuova iconografia tibetana e molti degli artisti ed artigiani seguivano il loro apprendistato nella regione del Kashmir, dove il buddismo era fiorente e vi si trovava una delle più importanti università monastiche dei tempi. Gli esempi più fulgidi di queste rappresentazioni si riscontrano nei monasteri di Tabo in Spiti e di Alchi in Ladakh, ed anche in siti minori ma bellissimi come Lhalung in Spiti o Guru Lhakhang, Sumdo, Mangyu e Wanla in Ladakh. In Zanskar il Gompa di Sani è antichissimo, quasi certamente preesistente a questo grande influsso, ma quasi tutti gli affreschi sono stati più volte rimaneggiati; in questa regione si trovano opere di quell’epoca ad esempio a Karcha.
Il buddismo divenne così il tratto culturale fondamentale di tutte le popolazioni della parte settentrionale dell’himalaia indiano, plasmandole culturalmente per tutti i secoli a venire, e permeandone in modo intimo anche la vita attuale. Il Kashmir, regione che fu antica fonte di apprendimento ed ispirazione per i popoli himalaiani, ebbe invece un destino diverso, perché cadde sotto il ferreo domino dell’islam.
Nel XV e XVI secolo il Ladakh fu teatro di diverse invasioni musulmane che portarono alla distruzione di parte dei monasteri, del patrimonio artistico ed alla conversione forzata di una parte della popolazione. Il regno fu spaccato in due: il Ladakh inferiore, con centro a Bazgo e Temisgum, e il Ladakh Superiore, con centro a Leh e Shey. Fu infine un re di Bazgo, Namgyal, il cui nome significa ‘dei vittoriosi’, a riunificare il Ladakh ed a dare inizio ad una dinastia che riacquisì autorità sull’intera regione. Il Namgyal Peak che sovrasta Leh è ancora oggi chiamato così in onore di questa dinastia, ed in particolare di re Tashi Namgyal (regnò tra il 1555 e il 1575) che vi fece costruire un forte ed una cappella. I suoi discendenti oggi hanno un ruolo fortemente carismatico per i ladakhi, ma ovviamente non di “re” nel moderno contesto dell’India; l’attuale erede è anche attivo in molti progetti di salvaguardia archeologica e culturale.
Ma le vicissitudini non erano finite: all’inizio del XVII secolo, durante il regno di Jamyang Namgyal, un’armata proveniente dal Baltistan penetrò in Ladakh distruggendo tutti gli edifici buddisti che trovava sulla propria strada. Il re fu costretto a sposare la figlia di Ali Mir e a giurare che i loro figli, educati all’islam, sarebbero stati i primi nella linea di successione per il trono, trasformando a tutti gli effetti il Ladakh in un regno islamico. Tuttavia il destino aveva progetti diversi: la popolazione riconobbe nella regina un’emanazione di una dea buddista, e il matrimonio finì col diventare causa di un rinnovato fervore.
Per via di queste vicissitudini storiche la maggior parte dei reperti storici sopravvissuti nei monasteri del Ladakh risale al XVII secolo. Molti di essi sono stati interamente rimaneggiati anche più di recente, spesso per la necessità di mantenerli agibili, che ha portato a ricostruire sopra le precedenti strutture, lasciando così in questi casi poca o nessuna traccia delle parti più antiche. Gli affreschi sono spesso stati rinnovati e ridipinti interamente; a questo proposito è importante tener presente che nella cultura buddista queste rappresentazioni sono degli strumenti di pratica e insegnamento, e non vengono tenuti in considerazione per il loro valore storico e artistico ma bensì per il loro intrinseco valore spirituale e didattico. Tuttavia, a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, l’incontro con la cultura occidentale e l’avvio di molti progetti di salvaguardia artistica gestiti da società caritatevoli hanno iniziato a cambiare questo atteggiamento, come dimostrano ad esempio i restauri eseguiti grazie agli sforzi dell’attuale ‘re’ ladakho Namgyal.
Proseguendo il racconto storico, il figlio Jamyang Senge Namgyal (1616-1642), il cui nome Senghe significa ‘leone’, fu un personaggio molto noto fra i re del Ladakh. Molto ambizioso, costruì tantissimi edifici; si devono a lui la fondazione del monastero di Hemis, la gigantesca statua di Budda a Shey, il grande palazzo reale che sovrasta Leh e un ampio numero di opere minori. Le sue mire espansionistiche ebbero successo: riuscì ad annettere lo Zanskar, lo Spiti e Gughe, mentre ebbe meno fortuna ad ovest, dove fu fermato dai musulmani. Le ambizioni di Senghe finirono però con l’avere ricadute negative sul futuro del Ladakh, perché le campagne contro i vicini di Gughe di fatto indebolirono il regno mentre il vero pericolo era rappresentato dai musulmani ad ovest e l’espansione ad est poneva in più un confronto col potente regno del Tibet. Si può quindi affermare che il ricordo di Senghe come un grande re è tale perché egli non visse abbastanza da avere a che fare con le conseguenze nefaste della sua ambizione!
Il figlio di Senghe, Deldan, continuò la politica anti-islamica del padre ‘dimenticando’ di pagare i tributi all’imperatore Moghul e respingendo militarmente gli islamici su diversi fronti. Commise però l’errore di allearsi col Bhutan in una disputa contro il Tibet e, sconfitto, fu costretto a ritirarsi a Bazgo, dove fu tenuto prigioniero per tre anni. Fu infine liberato dai suoi antichi nemici del Kashmir, ma il prezzo da pagare fu assai elevato: i Kashmiri acquisirono il potere sulla regione e i tributi dovettero essere pagati, non solo: Deldan dovette convertirsi all’islam. Nel 1684 fu stretto il Trattato di Temisgum fra Ladakh e Tibet, e anche in questo caso gli accordi ebbero come conseguenza una subordinazione del Ladakh. Il regno si trovò dunque stretto fra il Kashmir e il Tibet, dovendo rispondere ad entrambi.
Quando all’inizio del XIX secolo l’impero Moghul collassò, il Kashmir passò sotto il dominio Sikh, e, nel 1834, il Ladakh ne condivise le sorti, diventando parte, nel periodo del Raj britannico, dello stato di Jammu e Kashmir. La dinastia reale fu detronizzata ed esiliata a Stok, dove vive tutt’ora. Ciononostante, al Ladakh fu concessa una notevole autonomia, e la possibilità di mantenere i rapporti con il Tibet.
Nel 1947, quando l’India si sottrasse al dominio inglese ed i territori furono spartiti, il Ladakh rimase parte dello stato di Jammu e Kashmir, amministrato dunque dalla capitale Srinagar. Nel 1948 il Pakistan invase la regione, conquistando lo Zanskar, Kargil ed arrivando a 30 km da Leh, ma fu infine respinto. Kargil fu teatro di combattimenti nuovamente nel 1965 e nel 1971, durante le guerre indo-pakistane. La linea del cessate il fuoco, che era oggetto del contendere, passa vicinissima a questa cittadina; nel 1971 l’esercito indiano riuscì a spostarla a 12 km dalla città, dove rimane ancor oggi.
A partire dagli anni ’50 i rapporti difficili con la Cina hanno causato serie ripercussioni. Nel 1949 il governo cinese chiuse il confine fra Nubra e la provincia del Sinkiang, interrompendo un’importante rotta commerciale e causando per questo parecchie difficoltà per l’economia locale. Nel 1950 la Cina invase il Tibet, un’azione barbarica che ha portato alla morte di 1.200.000 persone (un sesto della popolazione), di cui la maggior parte rimase uccisa durante le spietate repressioni seguite alla conquista del territorio. Il Ladakh ospita oggi circa 3500 rifugiati tibetani. Nel 1962 la Cina tentò di invadere anche il Ladakh, ma fu parzialmente respinta dalle truppe indiane: tutto il territorio dell’Aksai Chin e le parti orientali di Pangong sono rimaste nelle mani degli invasori. Il confine col Tibet è così stato completamente sigillato, marcato da una linea di cessate il fuoco per la sua intera lunghezza, interrompendo 700 anni di relazioni tra le popolazioni.
Per via dei conflitti col Pakistan e le Cina il governo indiano ha rafforzato la presenza militare in Ladakh ed ha ridotto l’isolamento della zona costruendo l’aeroporto di Leh e le due strade militari che la collegano ad ovest con Srinagar ed a sud con l’Himachal Pradesh.
La regione è stata aperta al turismo a partire dal 1974.
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