Mustang: Il Regno di Lho
Appunti, racconti e riflessioni di un viaggio in Mustang a cura di Fiorenza Auriemma, agosto 2006
Lungo il dorso del mondo
Esiste ancora la possibilità di fare un viaggio “vero”, che lasci il segno, stupisca gli occhi e tocchi l’anima? Un’esperienza che permetta di portare a casa qualcosa di più oltre alle solite foto, ai video, agli oggetti cui si aggiungono, quando va bene, un paio di incontri particolari da ricordare, una manciata di nuovi numeri di telefono da segnare in agenda e qualche piccola avventura da raccontare? In altre parole, esiste ancora da qualche parte un luogo non scontato e imprevedibile, che dia l’opportunità di mettersi veramente alla prova e di arricchire il proprio bagaglio umano, di provare autentico piacere e fatica concreta, di sentirsi felici e stremati, euforici e senza parole? È la domanda che si pongono molte persone che per passione e curiosità investono tempo libero e denaro girando il mondo allo scopo di cercare di comprenderne la profondità, nonché di conoscere meglio se stessi, le proprie reazioni e la capacità di far fronte, accettare e apprezzare situazioni inusuali e imprevedibili, a volte eccitanti e stimolanti ma molto spesso altrettanto scomode e faticose. La risposta è sì. Anzi, probabilmente sono più d’uno gli angoli della Terra che rientrano nella categoria comunque ristretta e fragilissima che raggruppa microcosmi spettacolari e inquietanti, di fronte ai quali anche il viaggiatore più esperto resta sbigottito, sentendosi minuscolo e vulnerabile e forse proprio per questo in perfetta armonia con il mondo.
Di certo uno di questi posti incantati, e in grado di incantare, è “L’antico regno di Lho”, ovvero il Mustang: una piccola enclave himalaiana che sulla cartina appare come un dito puntato dal Nepal verso nord e il Tibet. È un territorio protetto, molto antico e straordinario nel vero senso della parola, per via della sua gente, della cultura, dei panorami, della posizione geografica, del clima, della religione. Isolato per natura e storia dal resto del mondo, questo luogo primitivo e complesso è tuttora parzialmente preservato dall’assalto del turismo di massa da un limite al numero degli accessi e da una tassa elevata che ogni visitatore deve comunque pagare per entrare. E soprattutto dal fatto che per attraversarlo non esistono strade, e quindi né macchine o altri mezzi meccanici, bensì solo sentieri percorribili a piedi o a cavallo e che si snodano tra i 3000 e i 4000 metri di altezza. Con l’unico lusso di poter disporre di una guida, un cuoco, qualche portatore e alcuni animali cui affidare il bagaglio, le vettovaglie, le tende.
Chi vuole scoprirlo deve perciò prepararsi a un viaggio “vero” di due settimane e oltre 200 chilometri percorsi sempre a piedi. La traversata punta prima verso nord, tra un susseguirsi di ripide salite e discese altrettanto estenuanti, seguendo il sottile nastro di una lunga mulattiera che passa in mezzo a piccoli villaggi isolati, colorate oasi di campi coltivati, immense vallate battute dal vento, profondi canyon e altrettanto vasti pianori, inquietanti paesaggi lunari, maestosi fiumi gonfi di acqua, microscopici monasteri buddisti celati nelle rocce. Come fosse la spina dorsale di un animale preistorico, questa sinuosa via, a tratti appena accennata, porta fino alla punta estrema del regno e alla sua capitale, Lho Mantang, cittadina tanto umile quanto stupefacente e arcaica dove vivono ancora il re e la regina. Per il viaggio di ritorno in direzione del Nepal, il difficile ed esile filo conduttore di terra battuta, sassi, polvere e ghiaia piega quindi bruscamente verso sud, seguendo un percorso ancora più arduo, scomodo, isolato. E proprio per questo ancora più generoso di sorprese ed emozioni.
Ecco qualche impressione tratta dal diario di viaggio.
Il piccolo eremo di Rechung Gompa
Superati due passi, il Taklam La a 3240 e lo Dzong La a 3550, entrambi ornati dai festoni multicolori delle bandierine di preghiera e dalle piramidi di sassi a opera dei viandanti che caratterizzano ogni valico himalaiano, dopo circa due dalla partenza da Chele raggiungiamo Samar, il primo centro abitato che incontriamo oggi: siamo a quota 3700, quindi 500 metri più in alto rispetto a Chele. Passiamo attraverso il villaggio che appare semideserto e lo lasciamo uscendo attraverso uno spettacolare chorten che dà sulla valle sottostante. Eccoci di nuovo alle prese con una discesa, ripida e difficile, e che conduce a fondo valle e a un rudimentale ma solido ponte di massi su un piccolo torrente, prima di trasformarsi di nuovo in salita.
Pensiamo di aver già superato il tratto più impegnativo della giornata, ma ci sbagliamo. Quando il pendio sfocia in un pianoro di morbida erba, Zambu, la nostra guida, ci propone una variazione al tragitto: mentre i cavalli e i portatori continueranno lungo la strada principale che porta a Cheling, il villaggio dove pernotteremo, noi possiamo deviare per un piccolo eremo, il Rechung Gompa, prima di riprendere il cammino verso la meta finale. Accettiamo. La scelta si rivela fin da subito azzardata, perché il sentierino che si inerpica sul fianco della montagna è molto più ripido e faticoso del previsto. Ma raggiunto il punto più alto, la soddisfazione ci ripaga dello sforzo: siamo a quota 4000 metri, e mentre riposiamo e riprendiamo fiato sotto le ghirlande di bandierine di preghiera del passo, la vista si rinfranca spaziando lungo le creste della catena dell’Himalaia.
Ora però c’è la discesa ad attenderci, lungo un sentiero di terra e sassi quasi a strapiombo e sdrucciolevole, ma che in poco tempo ci porta fino a una gola a fondo valle. La costeggiamo in silenzio e per un tempo che sembra infinito, con un’alternanza di saliscendi davvero estenuanti per le nostre gambe già messe a dura prova. L’ambiente che ci circonda però, simile a quello dei canyon americani, aiuta a sopportare lo sforzo e a tenere duro, nella speranza di vedere presto spuntare l’eremo. Arriviamo invece a un fiume, lo attraversiamo passando per un ponte di sassi, ed ecco finalmente apparire sulla sinistra una stretta gola secondaria di roccia rossastra dalla quale spuntano migliaia di bandierine appese ad annunciare il Gompa: lo spettacolo è incredibile e ci dà l’energia per affrontare l’ennesima e ripida salita e la breve scalinata finale che porta a una minuscola costruzione dipinta di arancione. Ricavata dentro il fianco della montagna, è così perfettamente mimetizzata nella roccia da essere invisibile se non fosse per quel mare di bandierine che ne rivela la presenza. Cautamente varchiamo la porta in legno del minuscolo monastero, consapevoli di aver raggiunto un luogo sacro, raro e unico nel suo genere, e ci troviamo in una piccola grotta naturale in mezzo a stalattiti e stalagmiti di roccia e alcuni stupa. Su una grossa pietra al centro è incisa la scritta “Om Mani Padme Hum”. Non troviamo le parole per commentare ciò che i nostri occhi stanno vedendo, e timidamente salutiamo l’unico monaco che vive qui, vestito con abiti vecchi e consumati. Sorridente e sereno, è tranquillamente seduto accanto a una stufa accesa intento a pulire con movimenti lenti e consapevoli una serie di ciotole di metallo destinate a contenere le offerte votive a base di acqua e i lumini di burro di yak. Ci guardiamo intorno con rispetto, scambiando a voce bassissima poche parole per il timore di rovinare l’incanto del posto, mentre con altrettanta discrezione ci muoviamo lentamente all’interno di questo piccolo gioiello per osservarne tutti i particolari: dalla roccia scolpita con centinaia di piccoli Buddha all’essenziale stanza da letto del monaco, dalla catasta di legna in un angolo alle pentole e alle poche suppellettili che permettono a quest’uomo di sopravvivere così isolato da tutto e da tutti.
La tentazione di restare più a lungo in questo scrigno colmo di pace e semplicità è forte, ma abbiamo la sensazione che la nostra presenza possa alterarne l’equilibrio millenario. Usciamo chiudendo con cautela la piccola porta di legno e sempre in silenzio scendiamo i gradini di pietra per fermarci sul greto del fiume. Ancora frastornati per aver vissuto un momento di un’intensità ben al di là di ogni aspettativa, ci sediamo a terra per rifocillarci con un po’ di pane fritto, qualche sardina in scatola e una mela, con i piedi immersi nell’acqua gelida.
Ci rimettiamo in cammino circondati da un paesaggio aspro e deserto, a parte qualche grande rapace che volteggia sulle nostre teste. Proseguiamo sgranati, ognuno immerso nelle proprie riflessioni e con la strana sensazione che il mondo potrebbe essere racchiuso tutto qui, in questa gola dalle alte pareti rocciose che sanno di eternità, fino a quando il canalone si allarga e il sentiero riprende a salire per riallacciarsi con quello principale che abbiamo lasciato poche ore fa, anche se in realtà sembra passato un secolo.
L’antico monastero di Lho Gekar
Al mattino, poco dopo le 7, lasciamo Tramar, le sue splendide rocce rosse e i rigogliosi campi verdi e rosa. Immediatamente lo stretto sentiero si trasforma in una salita ripida che si incunea in una gola austera e arida, caratterizzata da un susseguirsi di scuri massi simili a panettoni. Dopo circa tre quarti d’ora di cammino immersi nelle nuvole, sostiamo per qualche minuto sotto le bandierine di preghiera del primo valico della giornata, il Mui la, a quota 4170. Iniziamo la discesa con una pioggia sottile ma costante a farci compagnia, e piove ancora quando avvistiamo prima e raggiungiamo poi i rossi chorten e le immancabili bandierine di preghiera che delimitano e annunciano il piccolo ma famoso monastero di Lho Gekar. Immerso in un’oasi di grandi alberi lussureggianti che in questo paesaggio di vegetazione essenziale appaiono ancora più possenti, come una schiera di frondosi e secolari protettori della sacralità, il tempio è considerato uno dei più antichi del Nepal. Eretto nell’VIII secolo, è tuttora luogo di pellegrinaggio e di venerazione. Si racconta infatti che solo grazie alla sua costruzione fu possibile placare i demoni che ostacolavano la nascita dell’importante monastero di Samye, il primo a essere edificato in Tibet, tra il 775 e il 787, poco lontano da Lhasa e per volere di Guru Rimpoce, una delle principali figure del buddismo tibetano. La tradizione vuole che lo stesso Guru Rimpoce avrebbe scelto poi proprio Lho Gekar per nascondere alcuni importanti testi destinati a essere letti e studiati nei secoli a venire dai più grandi maestri buddisti tibetani. Oltre alla sua genesi così particolare, questo Gompa isolato e insolito contiene numerose ruote di preghiera, preziose pitture, rare statue e centinaia di pietre scolpite, colorate e racchiuse in cornici di legno. Nonostante la giornata non sia delle migliori e parte del monastero non sia visitabile, questo luogo è denso di misticismo e devozione, e perciò ci concediamo il tempo necessario per assorbirne in pieno il fascino, percorrendo con silenzioso rispetto il kora intorno alla costruzione principale, fermandoci a osservare da vicino le numerose sculture ricoperte di muschio e in stato di abbandono, i gatti che si aggirano senza badare alla nostra presenza, saltando di pietra in pietra e da un chorten all’altro, e il cane che pigramente si dedica alle sue abluzioni mattutine.
Tra i monaci di Lho Manthang
Subito dopo colazione, lasciamo la casa dove si trova il nostro accampamento e con pochi passi raggiungiamo la fila di chorten rossi che annuncia e precede la porta che interrompe le mura e permette di entrare nella cittadina di Lho Manthang, la capitale di questo regno. “Solo il re e la regina hanno il diritto di cavalcare per le strade della capitale, tutti gli altri devono scendere da cavallo e proseguire a piedi”, avevamo letto, increduli, sulla guida del Mustang. Ma è davvero e tuttora così. L’ingresso che si para davanti ai nostri occhi però non ha nulla di imponente o maestoso. Al contrario: è una breve galleria disseminata di escrementi di animali e sormontata da una cornice di legno che forse un tempo era dipinta e maestosa ma ora conserva ben poche tracce di un eventuale antico splendore. Eppure, da secoli questo varco è considerato un accesso quasi sacro, al punto da essere chiuso al tramonto e riaperto solo alle prime luci dell’alba. Ci avventuriamo con curiosità ed entusiasmo tra i vicoli stretti e bui che presto sfociano in una piazzetta, dove un gruppo di donne è intento a lavare panni, stoviglie e pentole attorno a una grande fontana. Di fronte, notiamo un edificio che pur nella sua semplicità ed essenzialità si distingue dagli altri perché nella forma ricorda un monastero, al posto dei soliti due piani ne misura quattro, e al piano terra ha un porticato in legno invece della piccola porta di legno o di pietra delle case comuni. Un mastino tibetano se ne sta acciambellato all’ingresso, mentre il grosso muso nero di un secondo esemplare della stessa razza si affaccia dalle grandi aperture simili a finestre senza vetri del primo piano: quest’ultimo particolare ci fa improvvisamente capire di essere davanti al palazzo del re del Mustang, che di regale ha in verità molto poco ma per contro è perfettamente in armonia con il resto della città.
Dopo pranzo, ritorniamo nel quartiere monastico, nella parte nord della cittadina. In attesa della cerimonia religiosa che si svolge ogni sera alle sei, abbiamo tutto il tempo per entrare nella scuola e sbirciare i giovani monaci che stanno studiando, a gruppetti nelle classi oppure da soli, seduti per terra e concentrati sui loro testi. Siamo accolti da tutti con un sorriso, e con un gesto cortese i monaci maestri ci invitano a entrare, a fotografare e ad assistere alle lezioni. Poco dopo ci avvicina uno studente adolescente che, ansioso di poter mettere in pratica l’inglese appreso sui libri, ci accompagna sul tetto della scuola. Qui, mostrandoci ogni particolare della città vista dall’alto e della valle che la circonda, ci chiede da dove veniamo, racconta la sua storia e domanda che cosa ne pensiamo del Mustang: “it’s a wonderful land with wonderful people”, una terra meravigliosa abitata da gente meravigliosa, rispondiamo istintivamente e in tutta sincerità. È così che dall’alto della scuola buddista assistiamo al calare del sole dietro una delle numerose vette himalayane che fanno da corona alla vallata, in compagnia di questo e di altri giovani così diversi eppure così simili a noi, conversando con loro del passato e del futuro, di religione e di vita quotidiana, di esigenze e difficoltà degli abitanti del magico regno del Mustang, e osservando il semplice gesto antico con cui si aggiustano la tunica rosso mattone sulle braccia nude mentre noi già da tempo abbiamo chiuso fino al collo la cerniera dei nostri pesanti giacconi per ripararci dal vento che si è fatto più tagliente.
Il guado verso Tangge
Sappiamo che ci attende una giornata impegnativa perché dovremo guadare un fiume, il Ghechang Khola, che come molti altri corsi d’acqua del Mustang è destinato a confluire più a sud nel Kali Gandaki e soprattutto non è attraversato da nessun ponte. È meglio arrivare presto all’appuntamento con questo passaggio, ci ha avvisato ieri Zambu, prima che il sole buchi le nuvole e sciolga le nevi che alimentano il fiume, rendendolo gonfio d’acqua, impetuoso e pericoloso. Preceduti dai portatori, ci mettiamo in cammino, inizialmente senza seguire un sentiero preciso e attraverso un paesaggio brullo e grigio, per poi prendere una mulattiera che si arrampica lungo le pendici di un monte fino a sfociare su un plateau spaccato in due da una grossa fenditura. A scavarla nel corso dei secoli è stato proprio il fiume che dobbiamo attraversare. Quando ci avviciniamo all’orlo dello strapiombo, lo vediamo scorrere limaccioso e irrequieto in un vasto e sassoso greto, circa 300 metri sotto di noi. Scendiamo in silenzio, intimoriti ed eccitati da ciò che ci aspetta di lì a poco, mentre con lo sguardo seguiamo i portatori che sempre davanti a noi hanno già raggiunto il fondo valle e si preparano a superare il guado.
Quanto tocca a noi, seguiamo alla lettera le istruzioni di Zambu: togliamo scarpe e calze mettendole al riparo prima in un sacchetto di plastica e poi negli zaini, infiliamo i sandali per proteggere i piedi dai sassi e arrotoliamo i pantaloni fino sopra al ginocchio. L’acqua per fortuna non è profonda, perché il cielo è tuttora grigio, ma nonostante ciò la traversata si rivela difficoltosa a causa della corrente e soprattutto della nostra inesperienza. Afferrando saldamente le mani di Zambu e degli sherpa che lasciate le gerle sulla sponda opposta sono tornati indietro per formare una catena umana in mezzo al fiume, riusciamo a passare indenni, uno a uno, passo dopo passo e molto lentamente per il timore di scivolare sui sassi melmosi. Quando siamo tutti in salvo sulla sponda opposta, le braccia e gambe indolenzite per la tensione e lo sforzo, guardiamo l’orologio: questo maldestro e improvvisato balletto nell’acqua ha richiesto un’ora di tempo. Nel frattempo, anche i cavalli sono arrivati al guado e lo stanno affrontando con una tranquillità e sicurezza che non possiamo fare a meno di ammirare e invidiare.
Tra le nuvole di Muktinath
Non sono ancora le sei del mattino quando il rumore sordo della pioggia che batte sul telo della tenda ci sveglia. Fuori, tutto è nascosto e avvolto in una morbida e umida ovatta: il cortile sopraelevato dell’alberghetto che ospita il nostro piccolo accampamento, l’unica strada su cui si affacciano le case del villaggio di Muktinath dove ci siamo fermati per la notte, a 3600 metri di altezza, le immense montagne che lo sovrastano compresa quella lungo la quale ieri pomeriggio siamo scesi, con il passo sicuro e lieve di chi ormai è abituato a camminare per ore e ore lungo sentieri stretti e tortuosi, ad affrontare lo sforzo dei continui saliscendi per attraversare profonde vallate e ripidi passi. Oggi è ufficialmente l’ultimo giorno di questo straordinario viaggio a piedi attraverso il Mustang. “Che cosa ne pensate della possibilità di costruire una strada carrozzabile che colleghi il Mustang al resto del mondo?”, recita una delle domande del lungo e puntiglioso questionario che in qualità di ospiti paganti ci è stato consegnato al posto di controllo all’ingresso del territorio protetto, e che ieri sera abbiamo compilato per restituirlo alla nostra guida prima di uscire dal regno. È stato difficile per noi rispondere: una strada vorrebbe dire medicine, scuole, condizioni di vita migliori per le popolazioni di origine tibetana che vivono dei frutti della terra, della generosità degli animali e di poco altro, arroccati e isolati nei villaggi che abbiamo raggiunto e attraversato giorno dopo giorno, ad altezze incredibili, dopo ore di cammino lungo mulattiere spesso a strapiombo su enormi vallate scavate nel corso dei millenni da fiumi che a volte abbiamo superato grazie a una versione più moderna degli antichi ponti tibetani, ma comunque instabili, e a volte abbiamo guadato, aggrappati l’uno all’altro per opporre resistenza alla corrente. Ma una strada, riflettiamo a voce alta, porterebbe inquinamento e rumore in un luogo dove anche il silenzio è bellezza, dove il minimo suono è percepibile a grande distanza, dove solitudine è sinonimo di armonia. E inevitabilmente arriverebbe un maggior numero di turisti e con loro una contaminazione culturale che nel giro di pochi anni avrebbe la meglio sulla vulnerabile identità e sulle millenarie tradizioni di questo popolo così semplice e sereno, caratteristiche che a noi appaiono come una ricchezza da preservare a ogni costo, ma che per chi vive qui coincidono con fatica, ristrettezze e stenti.
Come e quando andare
Soltanto pochi anni fa, nel 1992, il Nepal ha ufficialmente aperto le porte del Mustang, che continua comunque a rimanere un territorio ad accesso limitato. Dal punto di vista pratico, ciò vuol dire che ogni escursione in questa zona remota dell’Himalaia deve essere programmata e organizzata nei minimi particolari, appoggiandosi a un’agenzia (ad esempio Amitaba) che penserà a prenotare il volo per e da Jomoson passando per Pokhara, a procurare guida, portatori, cavalli per il trasporto delle persone e/o dei bagagli, tende, cuochi, viveri e combustibile per la cucina da campo, e a garantire che la spedizione sia il più possibile autosufficiente, senza che si debba appoggiarsi alla popolazione locale. Questo aspetto della complessa normativa che regolamenta gli ingressi non è però visto di buon grado dagli abitanti dell’antico regno di Lho, che oltre tutto beneficiano solo in minima parte della tassa di circa 80 dollari richiesta agli stranieri dal governo nepalese per ogni giorno di permanenza nel Mustang.
Oltre a questi, ci sono poi altri diktat da rispettare: per esempio, il permesso viene accordato solo per 10 o 13 giorni; non sono ammessi trekking individuali (il numero minimo è di due persone); ogni gruppo deve essere autonomo anche sotto il profilo sanitario; tutti i rifiuti accumulati durante il viaggio vanno raccolti e riconsegnati a Jomoson al termine dell’escursione.
Al di là delle questioni burocratiche ed economiche, altri fattori vanno tenuti in considerazione prima di avventurarsi nel Mustang. Il periodo dell’anno in cui è possibile organizzare un trekking va da marzo a fine ottobre, e comprende quindi anche la stagione dei monsoni che solo raramente superano la barriera formata dalle alte cime himalaiane. È bene prevedere un abbigliamento che possa riparare dal freddo, dal vento e dalla pioggia, così come scarponcini di ricambio e un paio di sandali per guadare i fiumi, una torcia frontale per la sera e la notte, un cappello e un’abbondante scorta di creme solari ad alto fattore protettivo. Tutto questo, tenendo comunque conto che sui voli interni nepalesi non si possono superare i 15 chili di bagaglio a persona.
Non è necessaria una particolare preparazione fisica, anche se alcuni aspetti possono essere discriminanti: l’altitudine può rendere più difficoltoso il cammino e interferire con il riposo notturno; i sentieri sono spesso impervi e in alcuni tratti molto esposti; il forte vento che a volte soffia durante le ore pomeridiane sollevando grandi quantità di polvere può rallentare l’andatura e aumentare i tempi di percorrenza e lo sforzo. In compenso, il cibo non manca e grazie alla perizia dei cuochi è più variato e appetitoso di quanto si possa immaginare. L’acqua da bere durante il trekking viene bollita ogni sera e lasciata raffreddare durante la notte, in modo da poter essere utilizzata in tutta sicurezza il giorno successivo.