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Dolpo: Ba-yul, la terra nascosta

Tra le valli più remote del Nepal

Racconto di una spedizione esplorativa in Alto Dolpo, un viaggio organizzato da Amitaba in Nepal in una delle zone più remote del mondo.
Le tre valli che costituiscono il Dolpo, situate lungo il confine con il Tibet con il quale condivide tradizioni e religione, conservano un ambiente naturale immacolato.

Un percorso tra queste valli porta ad un incontro con popolazioni che vivono seguendo ritmi archetipi, tra i villaggi di Dho Tarap, Tingkyu e Saldang e remoti monasteri, i più importanti: Yangsher, Bjier, Shey e Ringmo, centro Bon sulle rive del lago turchese di Poksumdo.
La regione ha pochi punti di accesso, e richiede un lungo percorso di cammino e il superamento di gole e alti passi per essere raggiunta, in particolare l’Alto Dolpo, motivo per cui è poco visitata.

I testi che seguono sono a cura di Fiorenza Auriemma

 

Nella Valle del Tulku

Piove acqua dura e pungente mista a grandine mentre scendiamo lungo lo stretto sentiero che dai 4.300 metri del passo porta a fondo valle, e questo ci obbliga a fare ancora più attenzione a dove mettiamo i piedi. Ma che spettacolo tutt’intorno: mentre a 360 gradi l’orizzonte è ornato a perdita d’occhio da un rosario di vette aguzze, aride e in parte innevate, un cielo vivo e potente si agita sopra di noi scaricando nubi, lampi e tuoni, quasi fosse un cappello magico sfuggito di mano a uno stregone distratto; e dai rari squarci d’azzurro, sottili lame di luce solare scendono a colpire i prati verde scuro giù in basso, verso i quali stiamo puntando anche noi cercando di non scivolare e di non farci portare via dalle raffiche di vento gelido. Non c’è scampo, anche questa notte passerà per l’ennesima volta all’insegna del maltempo e dell’umidità, ma domani, speriamo, sarà una giornata molto particolare: a Koma, il piccolo villaggio che si intravede sul fianco opposto dell’immensa vallata sotto di noi, ci hanno riferito che dovrebbe vivere un tulku, un lama reincarnato che vorremmo poter incontrare. A sera, mentre sotto il tendone ceniamo cercando di riparare i piedi e il piatto caldo di minestra dall’acqua piovana che si intrufola da sopra e da sotto, Gome, la nostra giovane e agilissima guida Ghurka, si avventura nel buio e nella pioggia per andare al villaggio in avanscoperta ad annunciare la nostra visita. Più tardi, quando torna al campo, è trionfante: il lama c’è davvero, ci racconta eccitato, e domani saremo i benvenuti nella sua dimora.

La mattina dopo la pioggia ci dà tregua giusto il tempo per disfare le tende e incamminarci verso il villaggio, non senza notare lungo tutto il cammino una fila di piccoli fiori di campo color lilla recisi e sparsi a un lato del sentiero. Incuriositi, seguiamo questa insolita traccia di natura chiedendoci chi mai possa essere il Pollicino locale, quando a un bivio un bimbetto con nei capelli quei medesimi fiori ci viene incontro sorridendo e a gesti ci invita ad andare con lui fino a un minuscolo cortile di una casa insignificante dall’esterno, dove si intrufola, e noi dietro di lui, in un antro buio e disadorno dal quale una stretta scala intagliata in un unico tronco sale fino a una sala più grande e a stento illuminata dalla luce che entra da un buco nel tetto sorretto da quattro colonne di legno. E in questa stanza arredata in modo spartano e con una rudimentale stufa al centro, ecco il lama, giovane, alto e sorridente, lo sguardo limpido e sereno e i capelli raccolti in una coda che scende lungo gli abiti color rosso mattone. Intorno a lui sgambettano, più incuriositi che intimoriti, cinque bimbetti – tra cui il nostro abile Pollicino che ci ha indicato così argutamente il cammino con i fiori – dagli occhi vivaci e intelligenti, sotto lo sguardo indulgente della giovane madre che ci esorta a prendere posto sui tappeti e sui cuscini fiorati che ricoprono il pavimento annerito, affrettandosi poi a versarci in minuscole tazze il tè con il burro salato, accompagnato da un piatto con pezzetti di formaggio secco e saporitissimo, in segno di benvenuto e di rispetto. Capiamo così di essere davvero arrivati dal personaggio più importante della vallata e di tutta questa zona, Lama Tangla Tshawang, nona reincarnazione di uno dei personaggi chiave della storia del buddismo nel Dolpo, nato per la prima volta più di 500 anni fa a Phu, a parecchie decine di ore di cammino da qui. È per incontrare proprio lui che qualche giorno prima avevamo studiato le mappe insieme a Gome; per valutare se ci fosse modo di deviare dal percorso originario e arrivare fin qui, anche a costo di scalare qualche faticoso passo in più, nonostante i dieci giorni di duro cammino già alle spalle, le gambe messe a dura prova da una discreta quantità di chilometri e di saliscendi tra i 3.000 e i 5.000 metri, e la consapevolezza di essere solo a metà del nostro viaggio attraverso il Dolpo. Ora però, seduti per terra in questa stanza così essenziale e accogliente, siamo semplicemente felici e ogni traccia di stanchezza, scomodità e umidità è sparita come per incanto. E tutto grazie alla presenza, alla voce e ai sorrisi di quest’uomo di 35 anni che emana spiritualità e naturalità; che è sì un lama reincarnato e venerato, ma è anche un padre e un maestro, come ci racconta, per i suoi figli e molti dei piccoli di quell’angolo sperduto del Nepal. Ed è soprattutto un essere umano, circondato da un’allegra e festosa famigliola che poco dopo ci seguirà quando aprirà per noi le porte del minuscolo ma prezioso monastero e lì ci darà la sua benedizione, a uno a uno, per poi lasciarsi fotografare prima di salutarci con un gesto che sa di ieratico e spontaneo, augurandoci buon proseguimento e scambiando con un noi un ultimo cenno di saluto e uno sguardo carico di commozione.

Ba-yul, la terra nascosta

Ecco che cos’è – anche – il Dolpo, angolo remoto e isolato dal mondo e dal resto del Nepal, del quale fa parte pur essendone culturalmente, climaticamente e geograficamente molto lontano: una serie di alti passi a sud lo separano di fatto dalla nazione cui politicamente appartiene, mentre un lungo percorso a piedi lo divide a est dal Mustang e valichi himalaiani altrettanto arditi segnano a nord il confine con il Tibet, con il quale però spartisce religione, storia, abitudini e aria rarefatta. Noto anche come “Ba-yul” – ovvero “terra nascosta” – questo lembo occidentale nepalese è formato sostanzialmente da tre vaste vallate che insieme danno vita a un Basso e un Alto Dolpo. Ed è ciò che si definisce a tutti gli effetti un luogo difficile e inospitale, nonché faticoso da avvicinare ed esplorare. Innanzitutto perché volendo raggiungerlo via cielo si può contare solo su una finestra temporale molto ristretta che non permette altra scelta se non il mese di giugno (per via della troppa neve prima e dei monsoni dopo) e sull’abilità dei piloti del minuscolo aeroplano a elica che, meteo permettendo, parte la mattina presto dalla piatta e in torrida Nepalganj – quasi al confine con l’India – e dopo una gimcana in quota di 50 minuti in mezzo a spuntoni di roccia, dirupi verdissimi, grumi di nuvole e ghiacciai immacolati, atterra sulla corta pista sterrata (e in salita!) di Juphal, a circa 2.500 metri. E poi perché da qui in avanti l’unico mezzo di trasporto alternativo ai propri piedi è il mulo. Ma che emozione scendere dalla scaletta di quella mosca volante e guardarsi intorno sgranando gli occhi e respirando a pieni polmoni! Fin dalla prima occhiata alle poche case del villaggetto e ai visi segnati e sorridenti dei suoi abitanti, la sensazione è di essere precipitati all’indietro nei secoli, come se invece che a un traballante e rumoroso aereo in miniatura avessimo osato chiedere un passaggio a una ben più ardita e stramba macchina del tempo. E questa iniziale impressione non farà che confermarsi e rafforzarsi per tutto il viaggio attraverso il Dolpo, una ventina di giorni di cammino e di notti in tenda che equivalgono a una vita intera per intensità di fatica, densità di emozioni e quantità di immagini impresse sulle retine.

Antichi e recenti esploratori

L’esplorazione da parte di stranieri di questo luogo di cultura buddista – dove non è raro incontrare ancora oggi monasteri e monaci dell’antica dottrina Bön e villaggi dove l’unico medico è l’amchi che cura con pozioni, strumenti strani e rituali antichi quanto il mondo – è storia piuttosto recente: il primo a poterne raccontare dopo averci messo piede in modo rocambolesco è stato nel 1890 Ekai Kawaguchi, un monaco giapponese che si è travestito da lama pur di riuscire a percorrere queste terre – non avendo nessuna autorizzazione per farlo – allo scopo di raggiungere il Tibet e dedicarsi allo studio dei sacri testi buddisti. Con sé, Kawaguchi aveva solo il minimo indispensabile, ovvero: “La neve come giaciglio per dormire e la roccia come cuscino”, come scrive egli stesso nel suo libro “Tre anni in Tibet”, dove tra l’altro annota le sue emozioni e l’incredulità di fronte al dato di fatto che qualcuno fosse in grado di vivere in un posto così inospitale e isolato ma di una bellezza che tocca il cuore: “Non devo dimenticare di rendere omaggio a questa natura grandiosa: le vette ricoperte di nevi eterne, la massa gigantesca delle rocce frastagliate, la quiete del posto, tutto trasmette angoscia e dà risalto all’anima”. È la stessa sensazione che si prova ancora oggi ancora salendo e scendendo dagli angusti sentieri del Dolpo, con il fiato corto, le gambe indolenzite e la pace nel cuore, dove però è normale e commovente alzare gli occhi all’orizzonte e vederlo sempre punteggiato da vette inviolate, e incrociare carovane di yak agghindati a festa e carichi di sacchi guidati da uomini dall’età indecifrabile ma che portano incisa sul volto la storia dell’umanità.
Se il monaco giapponese si era limitato ad attraversare frettolosamente la regione del Dolpo per puntare al Tibet, qualche decennio più tardi, nel 1956, lo scrittore britannico nonché studioso di cultura tibetana David Snellgrove lo ha attraversato per più di un anno, sfruttando le mappe che nel frattempo i cartografi del Survey of India avevano abbozzato, e destando poi i primi interessi nel mondo occidentale per questo mondo attraverso le pagine del suo libro “Himalayan Pilgrimage”, resoconto molto particolareggiato e ancora attuale di quel viaggio avventuroso e oltremodo faticoso: “Ammiravo quei paesaggi splendidi, così diversi da tutto quanto avevo visto finora in Himalaia”, commenta Snellgrove nei suoi resoconti.
Più di recente, agli inizi degli anni Settanta dello scorso secolo, lo scrittore americano Peter Matthiessen decide di accompagnare l’amico zoologo George Schaller che voleva osservare da vicino la vita e le abitudini amorose dei bharal, ovvero le “pecore blu”, bellissimi e agilissimi animali a metà strada tra i caprioli e le capre che tuttora vivono in branco e allo stato brado alle quote più alte e aride delle zone tibetane, dove non è raro avvistarle abbarbicate sui pendii scoscesi e brulli. Di quella missione, complicata per logistica, contrattempi e condizioni climatiche, Matthiessen racconta in modo particolareggiato e avvincente nel suo “Il leopardo delle nevi” (edito in Italia da Neri Pozza), libro affascinante e profondo dove alle difficoltà quotidiane necessarie per percorrere quella terra così forte e selvaggia si alternano riflessioni sull’essenza e sul senso della vita: “Mi chiedo come mai, in un luogo tanto opprimente, io mi senta così bene mentre avanzo sotto la pioggia, e grato in un modo che non so dire”; “Il silenzioso portentoso, qui, pare segnalare che nessun uomo appartiene a questi luoghi”; “Cresco in queste montagne, simile al muschio… Per quanto qui si pronuncino poche parole, non mi sento mai solo; sono tornato in me stesso”; “La nebbia delle nuvole, la neve, l’assoluto silenzio: annientamento. Poi, in questo enorme silenzio, ecco che le nubi si ritraggono rivelando le grandi distese nevose del Dhaulagiri. Respiro, la foschia turbina e ogni cosa svanisce – più niente! Involontariamente, mi piego in un piccolo inchino”.

Il film che ha reso famoso l’Alto Dolpo

Chi volesse saperne qualche cosa di più di questo mondo arcaico e di una bellezza possente e inquietante, si guardi “Himalaya, l’infanzia di un capo”, pellicola circolata nelle nostre sale cinematografiche una decina di anni fa e frutto del lavoro di più stagioni del regista, fotografo e scrittore francese Enric Valli che per molti anni ha vissuto a Katmandu innamorandosi del Dolpo al punto da andarci almeno una volta all’anno anche in pieno inverno quando la neve rende difficoltoso ogni singolo movimento, e continuando tuttora a tornarci: infatti lo abbiamo incontrato anche noi a Shey Gompa, durante il nostro viaggio. Girato con gli abitanti del villaggio di Saldang, a circa 4.000 metri di altezza, che interpretano se stessi, questo bellissimo film incanta per i paesaggi mozzafiato e la narrazione avvincente, ma di fatto non è altro che la trasposizione su grande schermo della vita reale e quotidiana degli abitanti di uno dei radi agglomerati di case disseminati nell’Alto Dolpo, e delle loro difficoltà per sopravvivere in un ambiente così poco malleabile e generoso. Da secoli infatti i Dolpo-pa – come vengono chiamati i cittadini di questa terra – in tarda primavera percorrono chilometri e chilometri di sentieri tra le montagne puntando a nord per incontrare i cugini nomadi tibetani, i Drok-pa, e dare loro l’orzo appena raccolto dai campi che a fatica riescono a coltivare intorno alle case, ricevendo in cambio il prezioso e richiestissimo sale tibetano da portare poi – dopo un altro estenuante e rischioso viaggio a piedi che può iniziare solo nel giorno indicato come propizio da stelle e divinità e sempre insieme ai fedelissimi e instancabili yak – verso il sud del paese. Per scambiarlo qui con una quantità di orzo superiore a quella che la natura permette di coltivare nell’Alto Dolpo, e poi fare di nuovo ritorno a casa, con gli animali stracarici di mercanzie e molto, molto in fretta, prima che il precoce inverno sbarri loro la strada rendendo inaccessibili i passi. Anno dopo anno, la vita di questo fiero e sereno popolo – ai limiti della sussistenza – è scandita da queste lunghe marce, su e giù per i valichi dell’Himalaia, dove la neve concede brevissime pause in estate. Restando però sempre in agguato, pronta a scendere dal cielo come un re austero e inclemente che non esita a sfoggiare la sua potenza, incurante di rendere ai propri sudditi il cammino molto difficile e a volte mortale.

Gioielli nascosti

Sono tanti i posti, i momenti e gli incontri che rendono indimenticabile un viaggio attraverso il Dolpo. Tra questi spicca senz’altro il lago Phoksumdo, anche per via del suo colore che è difficile da descrivere a parole: di un turchese intenso, sembra uscito da un catalogo di rivestimenti per piscine di lusso se non fosse che è enorme ed è incastonato tra pareti di roccia a strapiombo, a 4.000 mila metri quasi di altezza. C’è un unico sentiero che lo costeggia, salendo per poi discendere di nuovo lungo la sua sponda occidentale: scavato pazientemente dalla mano dell’uomo a mezza costa della montagna, da sempre questo nastro sottile di terra è il collegamento ardito e pericoloso che le carovane di yak compiono quando scendono verso sud, dopo aver superato passi e vallate. Ci vuole un’intera giornata per raggiungere la sponda opposta di questo magnifico esempio di bellezza della natura, lungo quasi cinque chilometri e largo più o meno due. E, pare, profondo 650 metri, perché nessuno lo sa con precisione dato che le sue acque sono inviolate: nessun essere umano le ha mai attraversate né a nuoto né in barca, e nemmeno i pesci osano violarne la liquida sacralità con la loro presenza. Secondo la leggenda, è frutto della vendetta di un demone di sesso femminile particolarmente maligno, la quale per sfuggire a Padmasambhava decise di regalare un turchese agli abitanti del villaggio in cambio del loro silenzio sul suo passaggio da quelle parti. Padmasambhava però trasformò la pietra preziosa in letame, e la popolazione a questo punto si decise a rivelargli il luogo in cui si nascondeva il demone. Accecato dall’ira, l’essere demoniaco pensò allora di vendicarsi provocando un’inondazione tremenda che seppellì il villaggio e la sua gente sotto una spessa, ferma e inaccessibile coltre di acque turchesi. All’estremità a sud del lago si trova il villaggio di Rigmo, e subito dopo l’acqua che fuoriesce silenziosa e quasi di nascosto dal lago si trasforma in una spettacolare e maestosa cascata di 200 metri, la più alta, sonora e importante di tutto il Nepal, i cui vapori pervadono l’aria e giocando con i raggi del sole formano minuscoli arcobaleni umidi ed evanescenti.
Shey Gompa è il più rinomato tra tutti i monasteri del Dolpo, e insieme alla Montagna di Cristallo che lo sovrasta è il più sacro, meta di pellegrinaggi, feste rituali e di kora. Situato a 4.000 metri circa, all’incrocio tra due strette vallate attraversate dalle acque di due fiumi, è un luogo amato anche dai nomadi che si fermano qui durante i mesi estivi con i loro animali. Il monastero in sé può in effetti deludere chi per arrivare fino a qui si è affaticato per giorni e giorni su e giù e lungo i sentieri e ha già alle spalle (o sa che deve comunque ancora affrontare) il fatidico passo del Kang La con i suoi 5.300 metri di altezza e passaggi innevati anche in piena estate, e dove è d’obbligo pronunciare “Soo! Soo! Lha gyalo!”, ovvero “possano gli dei essere vittoriosi”, breve preghiera di ringraziamento che i Dolpo-pa non dimenticano mai di liberare nell’aria a ogni valico raggiunto, insieme ai festoni di bandierine di preghiera tesi tra bastoni di legno e ai sassi che vanno ad alimentare le piramidi devozionali che costeggiano i luoghi sacri. Però basta fermarsi un paio di giorni dormendo sulla terra soffice ed erbosa vicino ai fiumi per riprendere fiato ed entrare in rapporto più stretto con questo angolo, forse disadorno – come lo è il monastero oggi come oggi – ma comunque affascinante. Anche perché da qui si diparte un piccolo sentiero che punta verso nord e aggirando i fianchi delle montagne che costeggiano uno dei due fiumi permette con un’ora di cammino dolce e rilassante di raggiungere Tsakgen Gompa, piccolo e incredibile monastero: incastonato nella roccia, spicca solo perché è dipinto di rosso e nero, ed è un luogo pervaso di pace e serenità che invita al ritiro e alla meditazione.